C’era una svolta
Omar Manini
Educatore socio-pedagogico e giornalista pubblicista, collaboro con scuole e magazine culturali allenandomi alla scrittura. Nato cinefilo, sono diventato grande appassionato del palcoscenico: adoro lasciarmi incantare dal suono delle parole, dall’incontro degli sguardi e dal peso dei silenzi. Da anni seguo le stagioni ERT di prosa e teatroescuola 0-18 per presentazioni, interviste e recensioni.
– “C’era una volta …” inizia così questo interessantissimo spettacolo del Teatro dell’Argine di Bologna.
Parrebbe una fiaba come tante, di quelle che hanno riempito le nostre serate da bambini, accarezzate dal tepore delle coperte e impreziosite dal regalo di bei sogni, nella certezza di ritrovarsi nell’universo colorato delle fantasie e dei rassicuranti finali del “vissero tutti felici e contenti”.
Eppure qui le cose appaiono da subito particolari: le principesse sono tre e sono rinchiuse nel proprio castello, rappresentato da grandi e strette scatole di cartone.
La verità, grazie all’accompagnamento di una voce off, che fa dell’ironia e dei giochi di parole un’arma molto raffinata, utile anche nella gestione del tempo dell’intreccio, è che la scatola-castello rappresenta l’insieme delle convenzioni e delle aspettative imposte dal contesto in cui vivono e che le obbliga a correggere, di volta in volta, ogni individualità.
Regole e gestione dei comportamenti non sono, così, solo necessarie indicazioni per escludere momenti di pericolo o suggerimenti basati sull’esperienza, mossi verso l’altro per liberarlo dal peso della fattualità e per farne emergere un’espressione del sé, ma gabbie e tracciati obbligati, imposti per essere accettati, prima ancora che per essere valorizzati. Intimazioni (anche solo psicologiche) che non proteggono, ma impediscono, schiacciano, fanno crescere dubbi, storture, voglia di reazione e fuga.
Per illustrare e suggerire tutto ciò, senza scivolare mai nel didascalismo, le tre perfette protagoniste rappresentano ognuna una tipologia ben definita dall’etichetta sociale, mostrando brillantemente, attraverso il linguaggio del corpo e, quindi, del mimo e della danza, i limiti dell’omologazione che schiaccia la persona e, conseguentemente, ne comprime e ne limita la libertà.
È attraverso musica (fantastico il mosaico che recupera pagine rock, rinascimentali, leggera, tip tap, …) e danza che le protagoniste respirano momenti di consapevolezza, conoscenza, confronto/ascolto, di rispetto e di crescita, ribellandosi e rompendo l’immagine e le proiezioni che gli altri hanno imposto.
“Non importa il colore del sogno, l’importante è sognarlo … ognuno il suo … se uno sogna è libero”: sono alcuni dei pensieri seminati lungo questo – solo apparentemente leggerissimo – viaggio teatrale delle protagoniste, che si collega empaticamente al nostro vissuto in platea.
Far sentire sbagliati gli altri e indicare un’unica strada della verità rischia, come ci mostra lo spettacolo, di far sentire l’individuo fuori dal giusto tempo e dallo spazio e sempre alla rincorsa dell’utopia di un tempo migliore in cui rifugiarsi, nel passato o nel futuro.
Ballando, scherzando, facendo ridere (molto) i ragazzi seduti nelle poltrone con una bellissima intesa emotiva, la nostra storia, iniziata come quella di “una volta”, si conclude con un cambiamento, una vera e propria svolta che non è data necessariamente dalla rivoluzione dello stato di fatto, ma dalla libertà di poterne scegliere le chiavi di lettura e d’azione.
Alla fine, una delle principesse si sposa ugualmente con un broccolo, ma per scelta, non per necessità, circondandosi di un sorriso al posto delle smorfie. E consegnandoci un fantastico tassello di crescita interiore e di speranza.