Tarzan, ragazzo selvaggio


Omar Manini
Educatore socio-pedagogico e giornalista pubblicista, collaboro con scuole e magazine culturali allenandomi alla scrittura. Nato cinefilo, sono diventato grande appassionato del palcoscenico: adoro lasciarmi incantare dal suono delle parole, dall’incontro degli sguardi e dal peso dei silenzi. Da anni seguo le stagioni ERT di prosa e teatroescuola 0-18 per presentazioni, interviste e recensioni.
La brama di vita all’aria aperta e l’amore per l’esotismo che hanno contraddistinto epoche passate, votate a una possibile esistenza utopica, attualmente sembrano soppiantati in direzione di un’esasperata spinta tecnologica e virtuale.
Eppure, seppur ben lontani dalla versione ruvida, romantica e idealizzata d’inizio Novecento, oggi tutti siamo un po’ Tarzan 2.0 – rapiti (o purtroppo consciamente affidati) e allevati da device sostitutivi delle figure formative – e riconosciamo ancora in quella storia, nel 2025, la spinta drammaturgica data dallo strappo di un bambino dalla civiltà e dal suo forzato inserimento nel mondo selvaggio.
Avevamo già apprezzato molto Luigi D’Elia nell’epica umana di Moby Dick e anche in questo Tarzan ragazzo selvaggio si conferma un potente narratore di quadri emozionali. Su un palcoscenico che prevede solo una pedana inclinata, il suo corpo si contrae e distende, si sposta e si apposta, si slancia e si ritrae per recuperare, e farci arrivare, ogni sfumatura di un racconto che lui e Francesco Niccolini hanno condensato con forza, dove scorrono le vene e le innervature della natura umanamente animale ideata da Edgar Rice Burroughs nel 1912.
“In principio il mare, poi la terra, poi un uccello… come gli animali, anche gli uomini amano la libertà… e come gli uccelli avevano le ali, ma poi sono cadute e gli è rimasto solo il camminare, ma quelle lingue, quei canti non li capiscono più”: inizia così l’insolito viaggio con cui i due autori, insieme al loro protagonista ci portano alla scoperta delle nostre radici naturali e ferine ed esaltano, per contrasto, la distanza e le storture contraddittorie a cui siamo giunti.
Il Tarzan di D’Elia/Niccolini è un racconto in forte chiaroscuro, che non risparmia i lati feroci dell’animale e della bestialità dell’essere umano; un racconto piano e caldo che si accende di lampi violenti o si raggomitola in stanze calde, accompagnato con tutta l’abilità gestuale di D’Elia nell’accendere immagini evocative nella nostra mente di spettatori. Sembra così di vedere davanti a noi la scimmia e quel piccolo d’uomo “che succhia latte, pelo e cuoio mentre fuggono nella notte stellata”.
Il teatro di narrazione di D’Elia mette alla prova l’attenzione del pubblico – oggigiorno sempre meno esercitata – e prevede la partecipazione attiva per una creazione teatrale condivisa, tra suggerimento attoriale e attivazione mentale.
L’ultimo tratto del viaggio – l’incontro con una società apparentemente civile, ma assolutamente incapace di empatia e sensibilità – ribalta in modo eloquente e dolente il concetto di libertà (chi è libero? quando? chi decide la giusta libertà?) ed educazione; così, la scelta finale di Tarzan, sulle note esplosive di “Welcome to the jungle” dei Guns N’ Roses, ha la forza di essere un tracciato civile e morale per proseguire con identità, coerenza, consapevolezza e necessità sociale e politica ognuno nella propria storia, nella propria direzione.





Informazioni sullo spettacolo
di Francesco Niccolini e Luigi D‘Elia
molto liberamente ispirato a “Tarzan of the Apes” di Edgar Rice Burroughs
con Luigi D‘Elia
regia di Francesco Niccolini e Luigi D‘Elia
spazio scenico Deni Bianco e Luigi D‘Elia
luci Paolo Mongelli
produzione: Teatri di Bari / INTI
- teatro d’attore e narrazione
- 60 minuti
- dagli 8 anni